Abacuc è un uomo di quasi 200 chili, che passa il suo tempo in una immobilità distaccata da qualsiasi emozione, si reca prevalentemente al cimitero, in parchi tematici dell’Italia in miniatura o vicino ad architetture utopiche. Vive in una casa ferroviera e non proferisce mai parola, l’unica voce che si sente è quella femminile e fuori campo che interviene quando, strappato per un momento alla sua solitudine catastrofica, Abacuc alza una cornetta telefonica con il filo staccato: la donna rimane celata, comunica tramite citazioni letterarie e si rivelerà un cul de sac come l’esistenza di Abacuc, perché è soltanto il suo sdoppiamento. Vive all’interno di geometrie rigorose, la sua esistenza è una sorta di sinfonia inceppata: Abacuc è una marionetta senza spettatore, recita l’ultima pièce possibile. In quanto sopravvissuto alla catastrofe, che vive nel continuo inseguimento di nulla, Abacuc rappresenta il bisogno dell’arte cinematografica di autoestinguersi e implodere in sé stessa.
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